Brutte figure

Nei dipinti dell'arte antica, fino a più o meno il rinascimento, si nota un certo rispetto velato di stupore per la riproduzione della realtà, in particolare della figura umana, come se si ritenesse ancora straordinaria la capacità di creare, con materiali semplici, copie di ciò che si vede o immagina. Col tempo l'uomo, prendendo familiarità con le proprie opere e abituandovisi, ha perso la riverenza che inizialmente aveva per la figura: difatti i contorni di queste ultime tendono a farsi meno realistici, come se non importasse più che cosa si riproduce, e l'immagine di un volto umano fisso su tela o carta non destasse più alcun effetto senza aggiungerci qualcosa di altro. C'è dunque, in modo più o meno naturale, una tensione via dall'estetico e verso l'intellettuale. Non che quest'ultima componente sia sempre stata estranea all'arte, anzi, non c'è mai stata arte senza significato: altrimenti si dice appunto di un'opera che essa è insignificante. In tempi più recenti, questo problema si riscontra nella fotografia, dapprima strumento dal funzionamento ignoto nei suoi più minimi dettagli (per quanto in profondità si guardi nel mondo fisico, qualcosa sfugge sempre: tale mondo fino ad oggi si è rivelato decisamente denso), poi mezzo con cui, oggi, l'uomo ricorre alla sintesi di proprio pugno: il digitale, da digitus, cioè che può essere enumerato, contato con le dita delle proprie mani o fatto contare ad una macchina più o meno complessa. Il sensore fotografico digitale, lungi dal comprendere (nel senso, anche, di includere) e riprodurre (produrre di nuovo) il fenomeno fisico, per sua natura compone un artificio privo di stupore che assomiglia al reale, è cioè finto (dal latino fingere) ad un livello impercettibile, ormai, per l'occhio umano. La finzione è confermata dal fatto che la memoria dei dispositivi digitali è volatile: non va fatto sforzo per farla sparire, ma va compiuto per mantenerne le creazioni. Per un'opera analogica, invece, è necessaria la distruzione per privarne il mondo: temo il giorno in cui non ci sarà più nulla da distruggere.

Tutto questo comporta la perdita di quella dimensione magica e sacra alla base dell'atto analogico: è infatti un profondo atto di fede quello nell'idea che, impressionata una pellicola, poi sia possibile, illuminandola, fissarla su carta. Nel digitale, invece, sappiamo esattamente come comporre, da pezzi elementari quali sono i bit, estensione numerica delle dita della nostra mano, una copia più o meno fedele della realtà: invece che transustanziata, l'immagine è imitata, creando un banale idolo, permettendoci di fare infinite brutte figure.


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